La fenilchetonuria (PKU) è una tra le più conosciute malattie metaboliche congenite, dovuta alla ridotta/assente attività di un enzima (la fenilalanina idrossilasi) per mutazione del gene deputato alla sua trascrizione (gene PAH). In Europa si stima un’incidenza di 1/10.000 bambini, con picchi maggiori nelle aree geograficamente isolate, come le isole, mentre in Italia i pazienti con PKU sono circa 4.000.
Nella PKU la mancanza dell’enzima determina l’incapacità dell’organismo di smaltire la fenilalanina (Phe), un amminoacido essenziale contenuto in quota variabile nella maggior parte degli alimenti, specie proteici, che noi tutti abitualmente consumiamo: carne, pesce, uova, formaggio, latte, etc, devono di conseguenza essere eliminati o almeno limitati nella dieta dei pazienti con PKU proprio a causa del loro elevato contenuto in fenilalanina.
L’accumulo di questa sostanza ha infatti un effetto tossico su diversi organi e sistemi, in particolare il sistema nervoso centrale, determinando in assenza di un intervento precoce e tempestivo la comparsa di numerosi segni e sintomi gravi e invalidanti come ritardo neurocognitivo severo, disturbi motori (tremori, incoordinazione), disturbi del comportamento e dell’umore (iperattività, aggressività) con una variabilità fenotipica strettamente connessa sia al valore di fenilalanina cui si viene esposti per effetto del difetto enzimatico sia anche all’età di esposizione. Un neonato sottoposto ad elevati livelli di Phe svilupperà un ritardo neurologico severo con compromissione grave del neurosviluppo, mentre un adulto che ha mantenuto sempre una buona aderenza agli interventi impostati e che solo in tarda età comincia in parte a disattenderli potrà andare incontro a deficit meno impattanti ma comunque presenti, quali deficit attentivo, cefalea, disturbi di memoria.
È questo il motivo per cui il trattamento impostato, ove necessario, risulta a vita.
Il difetto ha trasmissione autosomica recessiva, ciò significa che entrambi i genitori devono essere portatori della malattia per poterla trasmettere alla progenie, con una probabilità del 25% ad ogni gravidanza di avere un figlio con PKU.
Esistono numerose mutazioni in grado di determinare la patologia: per effetto di questa ampia variabilità, i quadri clinici e biochimici associati possono essere molteplici e numerosi.
Grazie allo screening neonatale è possibile identificare precocemente questa malattia nelle sue varie forme, permettendo di impostare un adeguato intervento terapeutico (in base alle necessità) in grado di garantire una conseguente ottima prognosi a lungo termine.
Il trattamento cardine ad oggi è costituito da un intervento dietetico a basso e controllato apporto di Phe, associato a supplementazione in aminoacidi sintetici, alimenti a fini medici speciali e integrazioni orali in micronutrienti e vitamine in base a necessità.
L’intervento dietetico, per quanto efficace nel ridurre i valori di fenilalanina e garantire outcome neurologici ottimali, è spesso tuttavia oneroso e difficile da seguire. Le limitazioni cui il soggetto affetto risulta obbligato a salvaguardia della propria salute rappresentano infatti uno dei principali motivi per cui i pazienti spesso riducono la propria aderenza nel tempo, con la crescita e la progressiva introduzione negli ambienti sociali, stanchi di dover continuamente limitare le proprie scelte alimentari con conseguente impatto psicologico/sociale rilevante.
In alcuni casi risulta possibile associare all’intervento dietetico un supporto farmacologico, da somministrarsi per via orale nelle forme responsive, costituito dal cofattore dell’enzima non correttamente funzionante nella malattia. Tale intervento di supplementazione permette di poter ampliare gli apporti di fenilalanina da dieta senza un corrispondente incremento dei valori plasmatici; tuttavia, non tutti i pazienti possono beneficiarne poiché non tutti ne risultano responsivi, soprattutto i pazienti affetti dalle forme classiche, quindi le più severe.
Di recente, a partire dal 2018, al fine di poter ottimizzare gli interventi terapeutici possibili e ridurre soprattutto l’impatto di malattia sul lungo periodo, è stato approvato un nuovo farmaco (pegvaliase) per i pazienti di età maggiore di 16 anni e con valori non controllati di Phe (ovvero >600 µmol/L).
Tale trattamento, somministrato per via sottocutanea, risulta in grado di ridurre significativamente i valori di fenilalanina fino anche a loro completa normalizzazione, a fronte di un’alimentazione del tutto libera.
Questa novità medica, per quanto possa associarsi a possibili reazioni avverse anche severe, rappresenta un cambio di passo epocale per la gestione dei pazienti affetti da PKU, destinato a rivoluzionare la concezione di malattia e di trattamento, nonché di impattare profondamente sulla prospettiva di vita a lungo termine con effetti significativi sulla riduzione del burden di malattia, miglioramento della qualità della vita e possibile recupero di una libertà mai avuta prima.
Si tratta di una terapia enzimatica sostitutiva, un farmaco quindi in grado di fornire al paziente l’enzima mancante, sostituendosi a quello innato, permettendo lo smaltimento della fenilalanina altrimenti accumulata in alimentazione libera. Ne consegue la possibilità, per il paziente, di interrompere gli schemi dietetici andando sempre più ad ampliare, fino a completa liberalizzazione, le proprie abitudini alimentari.
Lo schema posologico è variabile, altrettanto la frequenza di somministrazione. Ciononostante, la motivazione di poter ottenere un cambio radicale nella propria visione di vita è ciò che ad oggi spinge il paziente a voler avviare il trattamento.
In Italia pegvaliase è disponibile da relativamente poco tempo, per questa ragione sono ancora poche le Cliniche che hanno avviato i propri pazienti alla terapia e ancora poche le esperienze sul campo. Ciononostante, la direzione è verso l’ottimizzazione dei trattamenti e degli interventi, che siano il più possibile personalizzati sul paziente e che non si limitino più alla sola prevenzione del danno neurologico, aspetto fondamentale e imprescindibile ma certamente non l’unico nel panorama di questa malattia, piuttosto si proiettino a un miglioramento della qualità di vita, rendendo la persona affetta da PKU sempre più sovrapponibile a un soggetto sano, sotto ogni aspetto.
Il percepito di malattia è infatti tante volte differente dall’atteso, anche a fronte di outcome metabolici ottimali e assenza di difficoltà riportate, realizzandosi in una reale necessità di sostegno che passa non soltanto da un miglioramento “sociale” della vita del paziente ma anche e soprattutto da un tema specificatamente alimentare.
Nonostante la PKU sia una delle "più anziane" tra le malattie metaboliche essa costituisce il paradigma per innumerevoli altre patologie e presenta svariati ambiti di possibile miglioramento per le persone che ne sono affette.
Ottimizzare i percorsi di cura e assistenza permetterà, sul lungo termine, di migliorare sempre più l’aderenza terapeutica del paziente, quale che sia il trattamento ad esso dedicato, riducendone le difficoltà e conseguentemente migliorandone gli outcome.
Il successo terapeutico non è infatti costituito solo dal paziente, né solo dal medico, né solo dal trattamento dedicato, ma consta di una stretta alleanza tra tutti gli attori coinvolti, insieme per uno scopo comune: il benessere delle persone con PKU.