L’ipermobilità articolare (IA) è un segno clinico di riscontro comune nella popolazione generale. Tale termine, da preferire in ambito medico-scientifico rispetto ai suoi sinonimi “lassità legamentosa” e “iperelasticità articolare”, definisce la capacità che un’articolazione ha di estendersi o essere passivamente distesa oltre i limiti considerati “normali”.
Il riscontro di IA può quindi essere apprezzato all’esame obiettivo solo tramite specifiche misurazioni che vengono registrate utilizzando un goniometro ortopedico o un metro flessibile e confrontando l’esito della misurazione con standard di riferimento. Rispetto a tali parametri di normalità, il grado di estensione di una articolazione può essere influenzato da una serie di fattori che ne facilitano il riscontro come, ad esempio, l’allenamento fisico, il sesso femminile, la giovane età e l’appartenenza ad alcune etnie. Per questo, l’IA è più facilmente riscontrabile in atleti professionisti di specifici sport (quali ginnastica artistica e danza), nelle donne, nei soggetti pre-puberi e in individui originari da Paesi dell’America Latina e dell’Africa.
Al contrario, una serie di fattori acquisiti possono limitarne l’apprezzamento all’esame obiettivo e tra questi vengono inclusi i traumi articolari, alcune procedure di chirurgia ortopedica e le patologie acquisite che determinano un progressivo irrigidimento dei tessuti come, ad esempio, la sclerodermia.
L’IA è un segno clinico “aspecifico” perché, di per sé, orienta con poca specificità il medico verso ulteriori approfondimenti. Infatti, le cause che possono amplificare la mobilità di un’articolazione sono molteplici e riconducibili all’integrità anatomica e/o funzionale di tutte le sue costituenti, quali superfici articolari, legamenti, tendini, capsule articolari, menischi e muscoli. Inoltre, l’IA è un segno clinico “neutro”. Questo significa che il suo riscontro non è sempre sinonimo di patologia e ciò è facilmente intuibile dalla sua frequenza elevata nella popolazione generale. In altri termini, notare IA in una o più articolazioni non significa sempre prendere atto di una “spia” di una patologia sottostante in grado di spiegare una sintomatologia pregressa o concomitante, o capace di associarsi a future complicanze.
Gli attributi “comune”, “aspecifico” e “neutro” che sono stati correttamente assegnati al termine IA rendono ragione del fatto che il riscontro di IA deve essere sempre contestualizzato alle ragioni di accertamento, alla storia familiare e personale del soggetto e al resto dell’esame obiettivo, prima di essere dichiarato motivo di ulteriori approfondimenti.
L’IA è un attributo che può essere assegnato ad una articolazione, ad un gruppo di articolazioni o all’intero corredo articolare di un corpo, a seconda di quale sia la prospettiva per cui essa viene valutata. In questo senso, è possibile identificare dei pattern di presentazione dell’IA quando al suo riscontro voglia essere dato un significato in rapporto alla sintomatologia satellite eventualmente osservata. Quando l’IA è limitata ad una singola articolazione o ad un numero ristretto di articolazioni si utilizza il termine IA localizzata. Nel caso in cui l’IA sia essenzialmente limitata alle estremità (mani e piedi), il termine preferito è IA periferica. Infine, in presenza di una IA coinvolgente più articolazioni appartenenti a segmenti corporei diversi si utilizza l’espressione IA generalizzata. Mentre i concetti di IA localizzata e periferica sono di facile intuizione e la loro definizione operativa è tautologica, più difficile è nella pratica distinguere esse da una IA generalizzata.
Ad oggi non esiste uno strumento clinico in grado di valutare con la stessa accuratezza e in tempi ragionevoli tutte le articolazioni del corpo umano e per il quale sia disponibile una “formula” in grado di distinguere tra soggetti con IA generalizzata e coloro che non la posseggono. Ciò che attualmente viene utilizzato è l’indice di Beighton. Questo strumento di valutazione clinica consiste in alcune semplici manovre che possono essere eseguite con la collaborazione del paziente e si basa sulla valutazione binaria della mobilità di cinque gruppi articolari, quattro dei quali bilaterali (Fig. 1).
Se per ciascuna manovra viene notata una IA, allora viene attribuito 1 punto. Al contrario, se la manovra non mostra IA, viene assegnato punteggio 0. L’indice, quindi, varia da 0 a 9, dove 5 è il valore minimo per assegnare una IA generalizzata in un soggetto adulto, mentre 6 è quello minimo per individui pre-puberi. L’indice di Beighton quindi è positivo nell’IA generalizzata e negativo in quelle localizzata e periferica (Fig. 2). È bene chiarire che l’indice di Beighton è una variabile misurabile, non un punteggio di “gravità”. Inoltre, un indice di Beighton “positivo” non attribuisce la diagnosi di IA, che può coesistere in un certo numero di articolazioni anche in presenza di un indice di Beighton “negativo”, ma quella di IA generalizzata.
È bene chiarire che l’indice di Beighton è una variabile misurabile, non un punteggio di “gravità”. Inoltre, un indice di Beighton “positivo” non attribuisce la diagnosi di IA, che può coesistere in un certo numero di articolazioni anche in presenza di un indice di Beighton “negativo”, ma quella di IA generalizzata.
Il fatto che l’IA sia comune nella popolazione generale la rende un riscontro altrettanto frequente in ambulatorio. Pertanto, per il medico è rilevante non già porre attenzione sul suo riscontro, quanto completare la valutazione clinica prima di sollevare sospetti ed inviare il paziente ad ulteriori approfondimenti più specialistici. Questo perché, con una frequenza in popolazione generale che raggiunge il 50% in determinati contesti, l’IA non può essere tout court interpretata in modo allarmistico. È bene quindi chiarire che l’IA è un fenomeno anatomico posto ad un crocevia in cui si intersecano:
In merito al primo aspetto, è sufficiente ricordare quanto detto: l’IA è comune nella popolazione generale, è più rappresentata nel sesso femminile e in alcune etnie ed è inversamente influenzata dall’età del soggetto (minore è l’età, maggiore è il grado medio di mobilità articolare).
In merito al secondo punto, l’IA, indipendentemente dalla coesistenza o meno di altre problematiche cliniche connesse incluse le patologie sindromiche, può associarsi ad una significativa sintomatologia muscoloscheletrica. In soggetti predisposti, infatti, l’IA può determinare una instabilità articolare a cui sottende un aumento del rischio di micro- e macrotraumi articolari.
I microtraumi si esprimono con un progressivo accumulo di danno articolare che, superata una determinata fase pre-clinica, si manifesta essenzialmente in forma di dolori. Tali dolori, inizialmente occasionali o ricorrenti, corrono il rischio di cronicizzarsi verosimilmente a seguito dell’accumulo del danno articolare, del sopraggiungere di una patologia degenerativa, della limitazione nei movimenti che agevolando l’ipotonia peggiora anche l’instabilità articolare, e della sensibilizzazione al dolore. I macrotraumi si esprimono con una aumentata tendenza a distorsioni, lesioni legamentose, capsulari e tendinee, sublussazioni e lussazioni articolari.
Molti soggetti, pur non essendo affetti da una sindrome genetica, riferiscono sintomi muscoloscheletrici di questo tipo che in forma variabile possono a lungo andare determinare anche un certo grado di disabilità. Per questi soggetti, ad oggi classificati come “non sindromici”, si assegna la diagnosi di disturbo dello spettro ipermobile.
Infine, un piccolo gruppo di individui che presentano IA e, in particolare IA generalizzata, è affetto da sindromi genetiche vere e proprie.
In questi casi, l’IA generalizzata può essere intesa come una spia clinica in grado di guidare il medico verso una diagnosi più complessa. Questa eventualità solo in parte è facilitata dalla presenza di sintomi muscoloscheletrici. Infatti, non tutte le sindromi genetiche con IA generalizzata obbligano gli affetti a presentare tale sintomatologia.
Tra le numerose sindromi genetiche con IA generalizzata, le più frequenti sono le patologie ereditarie del tessuto connettivo. Tra queste, le sindromi di Ehlers-Danlos (EDS) rappresentano il prototipo di sindrome genetica con IA. Le EDS sono un gruppo di malattie genetiche caratterizzate dalla combinazione di IA, difetti di cicatrizzazione, iperelasticità della cute e, in alcuni sottotipi, fragilità vascolare e degli organi interni. Attualmente, esistono 14 varianti diverse di EDS. La variante ipermobile di sindrome di Ehlers-Danlos è presumibilmente la più frequente e può essere interpretata fenomenologicamente come un disturbo dello spettro ipermobile associato a segni sistemici minori di natura strutturale e non funzionale (ad es. habitus marfanoide, alterazioni della cute, anomalie non progressive delle valvole cardiache e dell’aorta intratoracica).
La diagnosi di questa variante può essere posta esclusivamente attraverso specifici criteri diagnostici, dal momento che non sono noti i geni causativi. Al contrario, tutte le altre forme di EDS, pur sospettandosi clinicamente, richiedono sempre una conferma diagnostica tramite test genetico. Sono infatti condizioni a trasmissione mendeliana e a gene noto.
Un soggetto affetto da una sindrome genetica con IA necessita di supporto sia a causa delle possibili conseguenze che la seconda può avere a livello muscoloscheletrico che per il monitoraggio delle altre manifestazioni cliniche della prima.
Un esempio estremo è la variante vascolare di sindrome di Ehlers-Danlos, nell’ambito della quale talvolta il riscontro di un segno clinico apparentemente benigno come l’IA è l’occasione per raggiungere una diagnosi con un rischio cardiovascolare ben più rilevante.
L’IA è un tratto comune in popolazione e spesso non ha alcuna rilevanza clinica. Tuttavia, in specifici contesti, il suo riscontro può aiutare nell’interpretazione e, conseguentemente, nel trattamento dei sintomi muscoloscheletrici associati e nella ricerca di una eventuale patologia genetica multisistemica sottostante, il cui riconoscimento può essere rilevante per il futuro del paziente e della sua famiglia.