La malattia di Whipple (MW) è una rara patologia cronica ad interessamento sistemico, caratterizzata da una presentazione clinica aspecifica ed eterogenea che, se non prontamente riconosciuta e trattata, può essere fatale [1]. È una malattia rara, con una prevalenza di 1-3/1.000.000 e un’incidenza annuale <1/1.000.000 nella popolazione generale. Colpisce quasi esclusivamente la popolazione caucasica e tipicamente uomini di mezza età, con un’età media alla diagnosi di circa 55 anni e un rapporto maschi:femmine di 4-9:1 [1,2].
L’agente eziologico è il Tropheryma whipplei (TW), un batterio bastoncelliforme debolmente Gram-positivo appartenente alla famiglia degli actinomiceti, molto diffuso nell’ambiente. Tale batterio è stato riscontrato non solo nei tessuti degli individui affetti da MW, ma anche in soggetti sani; in alcuni individui, inoltre, può causare infezioni gastrointestinali autolimitanti. L’elevata frequenza del patogeno nella popolazione contrasta però con la bassa prevalenza della malattia, suggerendo una predisposizione genetica nei soggetti affetti da MW. In particolare, è dimostrata un’associazione con gli alleli dell’antigene leucocitario umano (HLA) DRB1*13 e DRB1*06, oltre ad essere descritti casi familiari in letteratura [3].
L’infezione primaria, probabilmente contratta nell’infanzia con trasmissione interumana, tende a decorrere asintomatica o a dare una gastroenterite autolimitante. Nella maggior parte dei soggetti entrati a contatto con il TW l’infezione è seguita dallo sviluppo di una risposta immunitaria protettiva umorale e cellulare. Al contrario, nei soggetti predisposti, un difetto a carico del sistema immunitario favorisce la sopravvivenza del patogeno che, nel giro di alcuni anni, diffonde a livello sistemico e in siti immunologicamente protetti, come il sistema nervoso centrale (SNC). Questi soggetti presentano infatti dei macrofagi attivati secondo la via alternativa con espressione di interleuchina 10 (IL-10) e ridotta produzione di IL-12. A ciò consegue una ridotta espressione di interferone g nei linfociti T e una minore attivazione Th1 dei macrofagi stessi. Il TW, inoltre, induce nei monociti infetti l’espressione di IL-16 il che ne inibisce la maturazione. Ciò determina una risposta immunitaria prevalentemente antinfiammatoria (Th2). La risposta Th1 è invece ridotta come pure la produzione di immunoglobuline contro il TW. Pur fagocitando il batterio, i macrofagi non riescono ad eliminarlo e ad indurre una risposta immunologica protettiva. I macrofagi infettati veicolano il TW in tutto l’organismo e a ciò consegue lo sviluppo della MW [4].
La MW ha una presentazione clinica eterogenea e classicamente si manifesta con una sintomatologia sistemica e un decorso caratteristico [5]. Esordisce con uno stadio prodromico, tipicamente con un interessamento articolare di tipo artralgico o artritico, generalmente intermittente e migrante, che coinvolge grandi e piccole articolazioni periferiche. Il processo flogistico articolare, di norma, non esita in deformazioni e non si associa alla positività di autoanticorpi specifici. Questa fase prodromica, con durata media di 7-8 anni, è seguita da uno stadio sistemico, caratterizzato da diarrea, dolori addominali e calo ponderale. Tale sintomatologia può presentarsi più precocemente nei pazienti sottoposti a terapia immunosoppressiva durante la fase prodromica. In questo stadio, inoltre, possono manifestarsi febbre, linfoadenopatie, anemia, iperpigmentazione cutanea ed essere interessati organi quali cuore, polmoni, pelle, ossa e muscoli (Tab. 1).
Un coinvolgimento del SNC, presente nel 10-40% dei pazienti, può verificarsi in caso di diagnosi tardiva ed è il principale responsabile di una prognosi infausta. Le manifestazioni neurologiche sono estremamente eterogenee, nonostante la cefalea e i disturbi cognitivi rappresentino i sintomi più frequenti; i disordini del movimento oculare, come l’oftalmoplegia sopranucleare progressiva o la mioaritmia oculofacioscheletrica, sono invece considerati patognomonici (Tab. 2).
Nel 50% dei pazienti, tuttavia, l’interessamento neurologico è asintomatico e può essere rilevato solo mediante l’esecuzione di una reazione a catena della polimerasi (PCR) per TW su liquor. Oltre alla sopradescritta forma di Whipple, definita classica, esistono anche due forme particolari di MW, meno frequenti nella pratica clinica, di cui sono stati descritti alcuni casi in letteratura: l’endocardite associata al TW e il MW ad interessamento neurologico isolato. L’endocardite associata a TW si manifesta senza un coinvolgimento di altri organi o apparati. Il TW è uno degli agenti eziologici più frequentemente riscontrati nelle endocarditi con esame colturale negativo. In questi casi, i criteri di Duke per la diagnosi di endocardite spesso non vengono soddisfatti e la diagnosi si basa sull’analisi istologica o sulla PCR della valvola cardiaca espiantata, più frequentemente la valvola aortica. La MW a interessamento neurologico isolato, molto rara, ha una prognosi infausta se non diagnosticata precocemente. Può manifestarsi sia con lesioni cerebrali multiple, identificabili tramite TC o RMN e responsabili di segni e sintomi neurologici molto eterogenei, che con una singola lesione cerebrale con conseguenti deficit neurologici focali.
La diagnosi di MW classica si basa sul riscontro nei tessuti affetti, in particolare nelle biopsie duodenali, di macrofagi schiumosi diastasi resistenti positivi alla colorazione con acido periodico di Schiff (PAS) e negativi alla colorazione di Ziehl-Neelsen (Fig. 1). Nei macrofagi si osservano inclusioni citoplasmatiche granulari PAS positive. I villi intestinali sono tozzi e accorciati e presentano della linfangiectasie secondarie all’infiltrato macrofagico. È inoltre possibile ottenere una diagnosi biomolecolare della malattia mediante tecnica PCR che ricerca specificamente il TW. Dal momento che nel 50% dei casi si può avere un interessamento neurologico asintomatico, è opportuno sottoporre a PCR per TW su liquor tutti i pazienti con recente diagnosi di MW [2,5,6].
La terapia antibiotica induce un rapido miglioramento clinico e una remissione duratura nella maggior parte dei pazienti, sebbene possano permanere sintomi neurologici; è fondamentale, quindi, l’utilizzo di antibiotici in grado di oltrepassare la barriera ematoencefalica (BEE). La terapia attualmente raccomandata prevede l’utilizzo di ceftriaxone o meropenem per via endovenosa per due settimane, seguita dall’assunzione orale di trimetoprim-sulfametossazolo per almeno un anno [1,7]. Sebbene questa terapia abbia un’eccellente risposta clinica, non è chiaro se prevenga recidive a lungo termine, di cui sono stati descritti casi in letteratura. Pertanto, altri autori suggeriscono una terapia con idrossiclorochina e doxiciclina per un anno, seguita poi da profilassi a vita con doxiciclina [5,7].
Il follow-up prevede indagini strumentali inizialmente a 6 e 12 mesi, poi annualmente per i primi 3 anni e, infine, ogni 3 anni per il resto della vita [1]. Nei pazienti con manifestazioni gastroenteriche è indicata la gastroscopia con biopsie duodenali con colorazione PAS per un monitoraggio istologico; sebbene l’infiltrato macrofagico rimanga PAS positivo per anni, il suo aspetto cambia in modo caratteristico in risposta alla terapia antibiotica. La PCR specifica per TW, invece, si negativizza più rapidamente ed è un metodo estremamente valido per il follow-up dei tessuti interessati.
Alcuni pazienti possono sviluppare complicanze, quali un coinvolgimento neurologico, la sindrome infiammatoria da immunoricostituzione (IRIS) o le recidive di malattia [2,5,8].
Prima dell’introduzione di antibiotici in grado di superare la BEE come terapia della MW, il coinvolgimento cerebrale era considerato la complicanza più severa, a prognosi infausta.
Nell’ultimo decennio è emersa l’importanza dell’IRIS, un processo infiammatorio aspecifico che si presenta nel 10% dei pazienti, principalmente con febbre o artralgie, dopo l’inizio della terapia antibiotica. Fattore di rischio per lo sviluppo di IRIS è l’utilizzo di farmaci immunosoppressivi prima della corretta diagnosi di MW. In questi pazienti, dopo aver verificato l’avvenuta eradicazione del TW mediante PCR, va tempestivamente associata anche una terapia corticosteroidea [9,10]. La IRIS è una condizione che può essere infatti fatale. Infine, tra le complicanze possiamo annoverare anche le recidive di malattia, sostenute dalla grande diffusione del TW nell’ambiente e dalla predisposizione genetica dei pazienti. Sebbene queste si presentino più comunemente subito dopo la sospensione della terapia antibiotica, possono verificarsi anche molti anni dopo la fine del trattamento. Anche se queste complicanze non sono molto frequenti, il loro impatto sulla morbidità e sulla prognosi a lungo termine dei pazienti con MW è negativo.
La MW è una condizione molto rara, ma fatale se non prontamente riconosciuta e trattata. Poiché le sue caratteristiche cliniche sono aspecifiche ed eterogenee ed interessano diversi organi, la MW deve essere tenuta in considerazione non solo da gastroenterologi, infettivologi, internisti, reumatologi, neurologi, cardiologi, ma da tutti i medici.