La sindrome da anticorpi antifosfolipidi (antiphospholipid syndrome - APS) è una patologia autoimmune caratterizzata dalla presenza di anticorpi antifosfolipidi (antiphospholipid antibodies - aPL) persistentemente positivi in associazione a manifestazioni cliniche quali eventi trombotici venosi e/o arteriosi e/o complicanze ostetriche (1). Originariamente descritta in pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico (secondary APS - SAPS), l’APS può presentarsi anche in assenza di altre patologie autoimmuni (primary APS - PAPS).
La manifestazione clinica più frequente è la trombosi venosa profonda, mentre per quanto riguarda il versante arterioso, l’evento di più frequente riscontro è rappresentato dalla trombosi dell’arteria cerebrale media (2).
Descriviamo di seguito un caso di APS con coinvolgimento della circolazione cerebrale arteriosa.
Caso clinico
Si tratta di una paziente di 49 anni. Dal punto di vista dei fattori di rischio cardiovascolare la paziente è una ex fumatrice, il BMI al momento dell’evento era pari a 20, non ha mai assunto la pillola estroprogestinica e nulla di rilevante è da segnalare nella anamnesi patologica remota, ad eccezione di un intervento di appendicectomia in elezione in giovane età. Nel 2003, nel post-partum della seconda gravidanza, veniva posta diagnosi di lupus eritematoso sistemico (3) per comparsa di poliartrite non erosiva, malessere generale, rash malare e concomitante positività a medio titolo degli anticorpi anti-nucleo (pattern omogeneo) e degli anticorpi anti-double-stranded DNA.
Veniva impostata terapia con idrossiclorochina (200 mg/die) e bassa dose di corticosteroidi (prednisone 7.5 mg/die). Inoltre, veniva riscontrata una concomitante positività per lupus anticoagulant (LAC) e per gli anticorpi anti-cardiolipina (aCL) (isotipo IgG e IgM) a basso medio-titolo e anti-b2glicoproteinaI (ab2GPI) (isotipo IgG) a basso-medio titolo, per cui veniva avviata una profilassi primaria con acido acetilsalicilico 100 mg/die. Nel corso degli anni successivi il quadro clinico è rimasto stabile, con buon controllo della sintomatologia connettivitica e del quadro bio-umorale.
Nel gennaio 2019 la paziente accedeva al pronto soccorso, per comparsa di parestesie ed ipoestesie interessanti l’emisoma destro, in concomitanza con la temporanea autosospensione della terapia con idrossiclorochina. Gli esami ematochimici eseguiti in urgenza documentavano: globuli bianchi 7,02 x103/mcl, neutrofili 5.20 x103/uL, linfociti 3,5x103/uL, emoglobina 12,8 gr/dl, piastrine 277x 103/mcl, D-dimero 300 ng/ml, glicemia 98 mg/dL, urea 22 mmol/L, creatininemia 0,65 mg/dl, sodiemia 13 8mmol/L, K 3,7 mmol/L, proteina C reattiva 0,2 mg/dl, omocisteinemia 16,6 µmol/L, colesterolemia 170 mg/dl, colesterolo HDL 54 mg/dl, trigliceridemia 116 mg/dl, folati 7,5 ng/ml e vitamina B12 164 pg/ml.
La tomografia computerizzata dell’encefalo risultava negativa per cui veniva eseguito un approfondimento diagnostico tramite l’esecuzione di una risonanza magnetica dell’encefalo con studio del circolo arterioso intracranico. Tale esame evidenziava un quadro di ischemia cortico-sottocorticale occipito-mesiale con analoga lesione a livello del braccio posteriore della capsula interna sinistra e stenosi serrata dell’arteria cerebrale posteriore sinistra (Fig. 1). Veniva quindi deciso di potenziare il trattamento anti-aggregante associando clopidogrel 75 mg/die e di riavviare tempestivamente la terapia con idrossiclorochina 200 mg/die.
A febbraio 2019 la paziente giungeva per la prima volta alla nostra attenzione per una rivalutazione clinica. In considerazione del recente episodio ischemico cerebrovascolare e della triplice positività per aPL si poneva diagnosi di APS secondaria (SAPS) (1). Si decideva, quindi, di sospendere l’assunzione di clopidogrel a distanza di due mesi dall’evento trombotico e si impostava terapia a lungo termine con acido acetilsalicilico 100 mg/die in associazione ad antagonista della vitamina K (warfarin) con target INR 2-3. Nei successivi tre anni di follow-up non si sono verificate recidive trombotiche ed il quadro sintomatologico è rimasto stabile, con buon recupero dei deficit neurologici successivi all’evento cerebrovascolare.
I criteri classificativi per APS aggiornati a Sapporo nel 2006 prevedono la presenza contemporanea di almeno un criterio clinico (trombosi venosa/arteriosa o complicanza ostetrica) ed un criterio laboratoristico (positività a titolo medio-alto degli aPL, riconfermata a distanza di almeno 12 settimane - Tabella 1) (1).
Nel caso presentato, nonostante la positività incostante per gli aPL riscontrata all’epoca della diagnosi di connettivite, si è potuto porre diagnosi di APS solo a seguito dell’evento ischemico cerebrale ed alla riconferma della positività per aPL, anche a distanza dell’episodio trombotico.
In considerazione dell’elevato rischio trombotico cui sono soggetti i pazienti con positività per aPL, una corretta gestione terapeutica mira a prevenire lo sviluppo di un primo episodio trombotico (prevenzione primaria) e delle recidive di trombosi (prevenzione secondaria), combinando un approccio farmacologico, volto a controbilanciare la tendenza protrombotica, con lo stretto controllo dei fattori di rischio cardiovascolare, ad includere la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, l’eccessivo incremento ponderale e l’astensione dal fumo di sigaretta.
Cosa abbiamo imparato da questo caso clinico? In primo luogo, l’esperienza nella gestione di questa paziente conferma il ruolo degli aPL non solo come biomarcatore diagnostico nel contesto dell’APS ma anche come strumento per la stratificazione del rischio trombotico.
Per bilanciare correttamente il rischio emorragico intrinsecamente legato alla terapia anticoagulante, è necessaria un’attenta valutazione del profilo di rischio trombotico del singolo paziente, che varia in base al tipo di positività per aPL (alto rischio se triplice positività aPL, LAC isolato o aPL ad alto titolo persistentemente presenti), all’associazione con altre patologie autoimmuni, quali il lupus, ed alla presenza di fattori di rischio cardiovascolare tradizionali.
Vista la complessità della questione, negli anni recenti sono stati elaborati un numero limitato di scoring systems con l’obiettivo di stratificare i pazienti per il rischio individuale di sviluppare manifestazioni della sindrome. Tra questi il più utilizzato è il Global APS Score (GAPSS) che combina il profilo aPL con la presenza di ipertensione arteriosa e dislipidemia (Tab. 2) (4).
I pazienti con GAPSS maggiore di 10 sono considerati ad alto rischio per lo sviluppo di eventi trombotici e dunque richiedono un monitoraggio più stretto, in particolare quando soggetti ad interventi di chirurgia maggiore, viaggi lunghi, periodi di immobilizzazione prolungata (per esempio a seguito di fratture ossee) e durante il puerperio. In queste circostanze viene infatti raccomandata una profilassi con eparina a basso peso molecolare.
Il rischio per un paziente aPL positivo di sviluppare un primo evento trombotico è inferiore all’1% annuo, ma può salire fino al 5% in quei pazienti con aPL a medio-alto titolo, in cui sussistono fattori di rischio trombotico addizionali o in cui vi sia la concomitante presenza di patologie autoimmuni (5). È pertanto raccomandata una terapia profilattica con acido acetilsalicilico a basse dosi in pazienti portatori di aPL senza precedenti eventi trombotici o ostetrici solo quando presentino un profilo aPL ad alto rischio e nelle donne non in gravidanza con una storia di APS esclusivamente ostetrica. Inoltre, essendo stato provato un effetto protettivo dell’idrossiclorochina nei confronti dello sviluppo di trombosi, nei pazienti affetti da malattia autoimmune sistemica, in particolare lupus eritematoso sistemico, e positivi per aPL si raccomanda oltre ad una profilassi anti-aggregante, l’associazione con idrossiclorochina (6). Il caso della paziente presentato in precedenza rientra, quindi, in questo ultimo profilo.
La tromboprofilassi secondaria in pazienti con pregresso evento di trombosi venosa idiopatica viene invece effettuata con l’impiego di antagonisti della vitamina K (INR target 2-3). Questo trattamento permette di ridurre fino all’80-90% il rischio di sviluppare ulteriori eventi trombotici (7). In caso di singola trombosi venosa provocata (lungo viaggio in aereo, recente assunzione di contraccettivi orali, etc), la durata della terapia anticoagulante viene decisa seguendo le linee guida standard dei pazienti non affetti da APS (6).
Qual è l’impatto del riscontro di aPL in un soggetto con un evento cerebrovascolare arterioso? Cosa cambia rispetto ad un evento che si manifesta in assenza di aPL dal punto di vista terapeutico?
La gestione dello stroke nella popolazione generale è principalmente centrata sulla terapia antiaggregante. Qualora invece l’evento si manifesti in un soggetto con aPL, se la trombosi interessa il versante arterioso, il regime terapeutico antitrombotico è più aggressivo e si centra sull’anticoagulazione. I pazienti possono essere trattati o con antagonisti della vitamina K (warfarin) ad alta intensità (INR target >3) o con basse dosi di acido acetilsalicilico in associazione a warfarin a moderata intensità (INR target 2-3).
I dati ad oggi disponibili non supportano l’uso degli anticoagulanti orali ad azione diretta in pazienti affetti da APS con alto profilo di rischio, in particolare nei soggetti con triplice positività per aPL ed in coloro che presentano precedenti eventi trombotici arteriosi, rappresentando essi il gruppo a maggiore rischio per lo sviluppo di recidive, che possono mettere in serio pericolo la vita del paziente (8).
Nel trattamento della trombosi arteriosa del caso preso in esame, la scelta è ricaduta sulla combinazione di warfarin a media intensità, basse dosi di acido acetilsalicilico e idrossiclorochina, permettendo un buon controllo della malattia di base e garantendo, nei limiti del follow-up a nostra disposizione, l’assenza di recidiva di trombosi e di sviluppo di emorragie.
La strategia ottimale per la prevenzione primaria e secondaria nei pazienti con APS non può prescindere da una corretta valutazione del rischio trombotico del singolo paziente con aPL, che permette di giustificare il rischio emorragico intrinsecamente legato alla terapia antitrombotica.