Patologia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale responsabili dei movimenti della muscolatura volontaria danneggiando gradualmente le cellule nervose coinvolte, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una malattia rara devastante, per la quale attualmente non esiste una cura definitiva (Fig. 1).
Recenti sviluppi terapeutici hanno tuttavia offerto la speranza di poter rallentare la progressione della malattia migliorando la qualità della vita dei pazienti.
Lo scorso 29 febbraio, in occasione della Giornata Mondiale delle Malattie Rare, la comunità scientifica ha accolto con un minuto di applausi una notizia di grande rilevanza nella lotta contro la SLA. Tofersen, un farmaco innovativo indicato per i pazienti adulti con SLA che presentano una mutazione del gene della superossido-dismutasi1 (SOD1), ha ottenuto il parere favorevole del Comitato per l’uso umano dei medicinali (CHMP) dell’European Medicines Agency (EMA). Ora è necessario attendere l’approvazione finale di EMA e poi di AIFA. Fortunatamente, grazie ad un apposito programma di uso compassionevole, già da due anni i pazienti italiani hanno accesso a questo farmaco. Purtroppo, nel nostro Paese si rilevano forti disuguaglianze nell’accesso alle terapie, così come molti sono i pazienti non ancora consapevoli della loro condizione genetica.
La disponibilità di tofersen rappresenta una svolta nella storia della SLA e segna un cambiamento di prospettiva terapeutica. Nell’aprile 2022, il farmaco aveva ricevuto l’approvazione della Food and Drug Administration (FDA) come nuova opzione terapeutica per le persone affette da SLA con la mutazione nel gene SOD1, una forma rara che coinvolge solo circa il 2-3% dei pazienti, ovvero circa 120-150 persone in Italia. Fino ad ora, solo poco più della metà di queste persone sono state trattate con tofersen.
AISLA rivolge un appello alle Istituzioni e alle Autorità sanitarie e regolatorie affinché si adoperino al fine di promuovere una collaborazione più stretta tra i laboratori di genetica e i Centri specializzati in modo da ridurre i tempi di attesa per i test genetici. È infatti di fondamentale importanza che ogni paziente abbia la possibilità di conoscere la propria mutazione genetica così da poter accedere tempestivamente all'eventuale trattamento.
Esistono disuguaglianze nell’accesso ed i lunghi tempi di attesa per i risultati dei test genetici rappresentano un ulteriore ostacolo all’efficacia del trattamento (4-10 mesi per la diagnosi; 1-3 mesi per il risultato genetico; 2 mesi per ottenere il farmaco). È importante sottolineare che il test genetico rientra nelle competenze del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ed è gratuito per i pazienti. La diagnosi genetica in Italia è limitata a pochi Centri specializzati e non vi è un’omogeneità nella copertura territoriale. Mancano linee guida nazionali per standardizzare i metodi di analisi genetica e i tempi di consegna dei risultati.
“È importante considerare che gli studi scientifici dimostrano che l’efficacia di tofersen nel trattamento delle persone con la mutazione SOD1 è maggiore se somministrato tempestivamente“, afferma il Prof. Mario Sabatelli, direttore clinico dell’area adulti del Centro NeMO di Roma e presidente della Commissione Medico Scientifica di AISLA, che continua: “È fondamentale individuare la mutazione SOD1, ma la ricerca di altre mutazioni di altri geni come C9ORF72, FUS e TARDBP è altrettanto importante perché sono in corso studi promettenti.”
Oggi più che mai, con l’approvazione di tofersen, è fondamentale accedere alle terapie nel minor tempo possibile per salvaguardare la salute, migliorare la qualità della vita e combattere la progressione della SLA.
È stato pubblicato il 3 giugno sulla rivista ufficiale della Società Europea di Neurologia il primo studio (1) che affronta l’efficacia clinica del farmaco nel lungo termine, condotto grazie all’esperienza clinica sulla malattia dei Centri Clinici NeMO. Lo studio, che ha analizzato il più alto numero di persone con SLA con mutazione SOD-1 nel nostro Paese e per il più lungo periodo di tempo, dimostra la stabilizzazione o addirittura un lieve miglioramento clinico dei pazienti coinvolti (il 53% dei casi). Non solo, il farmaco ha un effetto positivo sul piano biologico nel processo di degenerazione dei motoneuroni, come confermato dalla significativa riduzione dei neurofilamenti, proteine indicatrici di tale processo, nell’82% dei pazienti coinvolti. Segni concreti di speranza, dunque, che confermano quanto dall’esperienza clinica sulla malattia si possa arrivare ad un concreto sviluppo della ricerca scientifica.